sabato 29 maggio 2021

“I Cavalieri” un’antica commedia greca sulla demagogia

1.

“I Cavalieri” è il titolo di una commedia di Aristofane rappresentata nel 424 a.C., di estrema attualità perché spiega cosa è la demagogia e mostra i metodi usati dai demagoghi per raggiungere il potere. Descrive anche con una certa acutezza, la degenerazione del confronto politico nella democrazia e la facilità con cui sia possibile ingannare il popolo all’interno delle assemblee o nelle procedure democratiche.

Allo stesso tempo, Aristofane ha inserito moltissimi riferimenti agli eventi storici del suo tempo. Il personaggio di Plafagone è ritagliato a partire da quella di Cleone, conciatore di pelli e uomo politico ateniese che l’autore considerava un uomo corrotto. Pare che Aristofane abbia dovuto costruire personalmente la maschera da indossare sulla scena e che abbia dovuto sostenere la parte di Plafagone, perché nessun attore voleva correre il rischio di incorrere nelle ire di Cleone e dei suoi compagni di partito.

2.

Il personaggio principale della commedia è Popolo (demos in greco), un vecchio sordo diffidente e irascibile che ha vari schiavi al suo servizio. Tra questi c’è Paflagone, un conciapelli che deruba e dilapida le sostanze di Popolo. È un uomo molto potente capace di influenzare l’assemblea e gli organi di governo. Tale situazione genera la preoccupazione di due schiavi. Mentre Plafagone dorme perché ha mangiato e bevuto cibo confiscato, questi due schiavi gli rubano alcune carte che riportano l’oracolo di Delfi. Nel papiro è scritto che Paflagone sarà scacciato da un individuo peggiore di lui, un vero e proprio lestofante.

I due schiavi prendono coraggio e riescono ad individuare un soggetto che ha tutte le caratteristiche descritte nell’oracolo. Si tratta di un salsicciaio: è rude e disonesto, conosce bene la piazza e sa a stento leggere e scrivere. I due schiavi gli leggono l’oracolo da cui si evince che sta per finire l’era dei Plafagoni e sta per cominciare l’era dei trippai e dei macellai e lo convincono che proprio lui è il governante ideale. Lo lanciano contro il conciatore e gli suggeriscono di cercare prima anche l’appoggio tra i cavalieri, una classe agiata contraria Plafagone.

Inaspettatamente quest’ultimo esce dalla casa di Popolo e viene assalito da alcuni che cercano di percuoterlo. La rissa ad un certo punto si arresta e Plafagone sfida tutti a chi grida più forte.

Ne nasce il primo scontro tra Plafagone e il salsicciaio. Entrambi urlano e si scambiano rispettive accuse. Ognuno cerca di esaltare se stesso come uomo furbo e accusa l’altro di essere un truffatore e di avere rubato milioni. Plafagone cerca di offrirne qualcuno al salsicciaio che rifiuta. La situazione degenera e Plafagone viene percosso nuovamente e sviene.

Successivamente il Salsicciaio racconta le sue imprese nell’agorà dove ha avuto il secondo scontro con Plafagone. Nell’assemblea il conciatore in un primo momento il conciatore pareva essere il padrone della situazione, ma il salsicciaio era riuscito a spuntarla spargendo la falsa notizia del ribasso del prezzo delle alici. Ciò aveva determinato l’approvazione dell’assemblea e il salsicciaio era riuscito a convincere tutti a votare per la continuazione della guerra piuttosto che una tregua.

Ma Plafagone è un politico navigato. Anche se indebolito non demorde. Si ha così il terzo scontro tra i due. Cominciano ad insultarsi e gridare come sempre. Paflagone risponde alla volgarità del salsicciaio con l’arroganza. Per dimostrare la sua forza, il salsicciaio chiama in scena Popolo. Il conciatore e il salsicciaio cercano di accaparrarsi il favore di Popolo con le lusinghe e con delle offerte. Il salsicciaio denigra l’opera di Plafagone e mostra a tutti come quest’ultimo sfrutti la propria posizione per favorire la propria produzione di pelli e quella dei suoi amici. Mostra a tutti come gli scudi dei militari della città abbiano le cinghe di produzione plafagonea. Indubbiamente il salsicciaio è più convincente nel presentare i doni a Popolo. I suoi doni sono prelibatezze culinarie: involtini, carni, calamari.

Nonostante questa vittoria, Plafagone è ancora al potere e cerca di resistere utilizzando gli oracoli, ossia sfruttando la religione. Il quarto scontro verte proprio sull’interpretazione di alcuni oracoli. Anche qui il salsicciaio è più forte, perché convince popolo che quei vaticini contengano promesse di futura grandezza. I due litiganti continuano ad adulare Popolo. Alla fine Plafagone deve cedere perché l’oracolo è chiaro: deve essere spodestato da un trippaio. Anche gli dei confermano e vogliono questo cambio al vertice del potere della città. Gli effetti su popolo sono evidenti: pur essendo vecchio, crede il contrario e si presenta vestito come un uomo giovane. Il salsicciaio gli fornisce anche una donna: tregua. Plafagone non viene punito, ma comincia a fare il salsicciaio.

3.

La commedia è esposizione ampia e dettagliata dei metodi usati dai demagoghi per raggiungere e mantenere il potere.

Aristofane propone lo scontro tra due tipologie di demagoghi: il conciatore Plafagone e il salsicciaio. Plafagone è un politico navigato che ha sfruttato le sue cariche politiche per arricchire se stesso e altri a lui vicini. Il salsicciaio è un disonesto che si è arricchito rubando soprattutto ai privati e che aspira ad avere una carica per potere sfruttare l’amministrazione pubblica per i propri affari.

Il popolo è rappresentato da un vecchio sordo e irascibile che si fa abbindolare facilmente dai demagoghi.

La commedia descrive i livelli della demagogia. Il primo livello è rappresentato dall’ingresso del salsicciaio nell’agone politico. Si accattiva le simpatie del popolino perché conosce la piazza e usa lo stesso linguaggio volgare e scurrile. È uno che non sa fare un discorso argomentato, ma sa urlare bene. Dietro di sé ha soprattutto i cavalieri, gente agiata e che disprezza il popolo, che punta su uno del popolo per riconquistare il potere.

Il secondo livello della demagogia è rappresentato dall’uso delle fake news. Il salsicciaio riesce a convincere l’assemblea popolare diffondendo la fake new sul ribasso delle alici. L’effetto è dirompente: l’assemblea approva la continuazione della guerra invece di approvare la tregua.

Il terzo livello della demagogia sta nella capacità del demagogo di abbindolare il popolo con lusinghe, con elargizioni (es. il cibo o altri vantaggi). Nella commedia il salsicciaio riesce ad ottenere il favore del vecchio popolo con il cibo (carni e pesci) ossia con dei provvedimenti allettanti che permettano ai più di riempirsi la bocca e la pancia. Chiaro è il riferimento ad alcuni provvedimenti di Cleone.

Il quarto livello della demagogia tocca la religione. Aristofane mostra come i politici ricorrano alla religione per giustificare il proprio potere o per illudere il popolo di grandiose vittorie con ogni sorta di menzogna.

La demagogia giunge al massimo livello quando il popolo crede alle menzogne e si crede quello che non è. Nella commedia il popolo, un vecchio sordo e debole, si crede giovane e forte e cede ai vizi che sono rappresentati dalla donna.

Infine Aristofane mostra di essere acutissimo, sottolineando che Plafagone, il demagogo spodestato riesce ad evitare la sua punizione. Gli si aprono due strade: o ritornare nella piazza a rubare i privati come aveva fatto il salsicciaio o salire sul carro del vincitore divenendo salsicciaio. In questi termini, credo che si possano interpretare le parole di Aristofane secondo le quali, alla fine, Plafagone comincia a fare il salsicciaio.

Si tratta di un vero capolavoro. È poco letto nei licei ed è tradotto malissimo dai professori universitari perché è difficilissimo rendere in italiano la lingua comica del suo autore. È un testo che andrebbe riletto con attenzione, perché penetra in profondità i difetti del sistema democratico e i metodi usati dai demagoghi per arrivare al potere.

martedì 25 maggio 2021

Comenio. Una pedagogia per l’utopia della pace universale

La Guerra dei Trent’anni è stato uno dei conflitti più sanguinosi della storia umana. Si è svolta in varie fasi tra il 1618 e il 1648 nel territorio del Sacro Impero di Germania. Si fronteggiarono gli eserciti e le milizie mercenarie di vari stati (Francia, Spagna, Svezia, Austria, Danimarca) che causarono lo spopolamento di interi territori. Queste azioni sanguinose traevano origine da problemi di natura religiosa legati alla lotta tra cattolici e protestanti. Solo nel 1648 fu raggiunta la pace con il Trattato di Westfalia che è considerato uno dei fondamenti del diritto internazionale moderno.

In questo contesto operò Jan Amos Komensky (1592-1670), noto soprattutto con il nome latinizzato Comenio. Era uno dei leader dei Fratelli Moravi, un gruppo protestante che si rifaceva alle dottrine di Jan Huss, un eretico boemo del XV secolo. Tale confessione operava in Boemia, ossia all’incirca nel territorio oggi occupato dalla Repubblica Ceca e dalla Slovacchia.  

Comenio compì gli studi a Herborn e ad Heidelberg e dopo il loro completamento fu nominato pastore (1616) poco prima dello scoppio della Guerra dei Trent’anni. Qualche anno dopo, la battaglia della Montagna Bianca determinò la fine della libertà di religione in Boemia (8 novembre 1620). Le truppe spagnole conquistarono i territori in cui operavano i Fratelli Moravi. La chiesa in cui predicava Comenio fu incendiata e distrutta. Il gruppo rischiò di essere totalmente annientato e sterminato. A seguito delle azioni belliche i membri della comunità furono costretti a fuggire nella vicina Polonia. Comenio visse per tutto il resto della sua vita come esule, viaggiando di città in città e di regno in regno alla ricerca di protezione e salvezza. Prima fu in Polonia, poi in Svezia e in Inghilterra. Invano, il Cardinale Richelieu lo invitò in Francia. Per un certo periodo soggiornò anche in Olanda, che era in quell’epoca il regno più tollerante e liberale dove morì nel 1670.

Comenio fu innanzitutto per tutta la sua vita un pastore della Chiesa morava e tutte le sue opere sono profondamente influenzate dalla predicazione e diffusione del cristianesimo nel mondo. Operò nella convinzione di essere un profeta in un mondo assolutamente ostile alla sua predicazione.

La sua concezione del cristianesimo e il suo pensiero sono, però, profondamente influenzati anche dalla filosofia ermetica dei Rosacroce di cui quasi certamente Comenio fu membro. In quasi tutti i suoi libri sono presenti molti elementi riconducibili a questa società iniziatica rielaborati in modo molto originale.

Il suo pensiero è assolutamente estraneo al razionalismo cartesiano e alla scienza che si stava sviluppando ad opera di Galileo, di Keplero, Francesco Bacone e John Locke. La sua visione del cosmo rimase saldamente geocentrica. Solo in qualche scritto espresse un certo favore per il sistema di universo proposto da Tycho Brahe.

Comenio fu soprattutto un intellettuale perseguitato per la propria fede e per tale ragione costretto alla fuga dalla propria terra natale.  L’esperienza della persecuzione e il rischio dell’annientamento di un intero popolo sono profondamente presenti nelle opere di Comenio tanto che nel suo sistema pedagogico inserì lo studio della lingua e della cultura del popolo di cui fa parte lo studente.

Allo stesso tempo, l’esule boemo approfondì gli studi di grammatica e cominciò a vagheggiare l’idea di costruire una lingua universale in modo da facilitare le comunicazioni e favorire la pace universale. Il progetto di una lingua universale è presente in molti autori del XVII secolo come Guillaime de Postel, George Dalgarno, John Wilkins, Athanasius Kircher. In questi autori, la costruzione – o più correttamente restaurazione – di una lingua universale era il frutto di suggestioni derivate dalla Bibbia, dalla Cabbala e dall’esoterismo. Tuttavia in Comenio, la questione del linguaggio assume dei profili estremamente originali.

Il pedagogista boemo riteneva necessario insegnare la lingua e la cultura di origine del luogo da cui proveniva lo studente. A questo andava aggiunto lo studio di altre lingue ed in particolare anche delle lingue antiche come il latino, il greco e l’ebraico. A completamento di questo iter, stava la realizzazione e l’uso di una lingua universale. Questo particolare ambito era chiamato da Comenio con il termine Panglossia e confluisce nella Pampedia, la pedagogia universale.

Comenio è il primo pedagogista a parlare esplicitamente di una scuola aperta a tutti in cui si insegna tutto. Pone l’accento sulla necessità di istruire e di illuminare anche i più poveri. Questa pedagogia ha una vocazione universale e missionaria. Lo scopo è quello di formare uomini virtuosi e giusti dotati di una cultura globale e universale, una pansophia.

La panglossia (lingua universale e studio delle lingue), la  pampedia (pedagogia universale) e la pansofia sono strettamente connesse con un’aspirazione alla pace universale e alla riforma politica e religiosa. Nell’opera intitolata Via lucis, Comenio disegna una visione utopica dove un Concilio del mondo deve ispirare uno stato perfetto, in cui si parlerà una lingua filosofica, la Panglossa. In quest’opera scritta tra il 1641 e il 1642 a Londra ma pubblicata ad Amsterdam nel 1688 propone la creazione dei corpi di luce, ossia organizzazioni culturali a vocazione internazionale e universale. Inoltre parla di un grande Concilio internazionale e la creazione di una sorta di Tribunale internazionale.

Queste idee sono ulteriormente approfondite nel De rerum humanarum emendatione consultatio catholica che è un appello universale per una riforma universale.  È un accorato appello a tutti i saggi per procedere in modo coordinato verso la costruzione di un sistema scolastico e culturale integrato a livello internazionale.

Comenio individua nella società tre categorie di uomini: i dotti, i governanti e i preti. Ad ogni categoria compete il compito di custodire la società in una particolare sfera di azione. Scuola, stato e chiesa sono, pertanto le tre istituzioni fondamentale della società. Il progetto di riforma di Comenio prevede la creazione di un Collegium lucis per una riforma culturale e didattica universale, di un Dicasterium pacis per le questioni politiche con il compito di garantire la pace e favorire il disarmo (Panorthosia, XXV) e di un Concilium oecumenicum  per ottenere l’unità dei cristiani. In particolare, Comenio avversa l’intolleranza religiosa e l’imposizione della religione con la forza (il famoso compelle intrare di Sant’Agostino).

L’opera si conclude con la Pannuthesia, un appello universale per la realizzazione di questo disegno.

Quest’opera è rimasta incompiuta e ne fu pubblicata solo una piccola parte: la Panergesia. Alla morte del loro autore, i manoscritti furono affidati ad un gruppo di pietisti. Si conoscevano sia il contenuto che la struttura dell’opera sin dai primi anni del XVIII secolo, pur tuttavia solo nel 1934 in modo quasi casuale furono ritrovati i manoscritti della Consultatio. La pubblicazione di questi testi ha contribuito enormemente alla rinascita del pensiero comeniano nel XX secolo. Dopo la seconda Guerra Mondiale, l’UNESCO ha indicato in Comenio, uno dei suoi padri ispiratori e ha contribuito molto alla ristampa e alla diffusione del suo pensiero a livello mondiale.

Il pensiero e la pedagogia di Comenio hanno avuto alterne fortune nel corso dei secoli successivi. Il filosofo e scienziato Leibniz (1646-1716) accettò e sostenne lo spirito irenico di Comenio e l’aspirazione alla creazione di un sapere universale. Gli Illuministi del XVIII secolo, al contrario, lo avversarono profondamente rimproverandogli la sua mancata adesione alla scienza moderna e al razionalismo cartesiano. Per molti di loro, Comenio era ancora un uomo del Medioevo, sostenitore di superstizioni, misticismi e credi apocalittici.

La pedagogia comeniana, invece, ha avuto maggiore fortuna ed è stata tenuta in considerazione da J. Wesley, Herder, Pestalozzi, Krause, Herbart e Froebel. L’interesse verso le sue proposte pedagogiche è continuato durante il XIX secolo in Boemia e in Gran Bretagna ed è notevolmente aumentato a partire dagli anni Trenta con la scoperta dei manoscritti della Consultatio e successivamente per opera di Jean Piaget all’UNESCO.

Comenio è un filosofo, teologo e pedagogo che ispira un grande rispetto perché fu un uomo di pace perseguitato per le sue idee religiose. Le sue parole e le sue idee hanno un calore e una forza che appassionano e coinvolgono lo studioso. Forse questa è la ragione per cui ancora in tutto il mondo si parla di lui, nonostante le sue visioni politiche e religiose siano state rifiutate e mai realizzate in vita. Questa passione e questo suo calore lo rendono unico in tutta la storia della pedagogia mondiale.

Bibliografia

G. A. Comenio, Pagine scelte pubblicate a cura dell’UNESCO , Giunti Bemporad Marzocco.

J.E. Sandler, Comenio e il concetto di educazione universale, La Nuova Italia, Milano, 1969.

Jean Piaget, Jean Amos Comenius, sta in UNESCO, Bureau international d'éducation, vol. XXIII, n° 1/2, 1993, p. 175-99, http://www.ibe.unesco.org/sites/default/files/comeniusf.PDF .

lunedì 24 maggio 2021

John Dewey. Democrazia e educazione

Il filosofo americano John Dewey (1859-1952) ha dedicato particolare cura all’analisi del delicatissimo rapporto tra democrazia e pedagogia. A questo argomento ha dedicato anche la sua opera più famosa che si intitola Democrazia ed educazione. La sua riflessione si sviluppa stabilendo uno stretto legame tra filosofia e pedagogia.

Il suo pensiero filosofico è fortemente influenzato dal pragmatismo e dall’evoluzionismo di Darwin, si fonda su una «teoria dell’esperienza», secondo la quale soggetto e natura interagiscono sempre e costantemente. Questa relazione è sempre dinamica, creativa ed aperta in quanto il pensiero umano è sempre costretto a rivedere e ricostruire le proprie conoscenze. John Dewey definì questa sua concezione dell’esperienza come strumentalismo.

In quest’ottica, la logica è una teoria dell’indagine strettamente collegata all’applicazione del metodo scientifico che permette di sviluppare conoscenze partendo dalla sperimentazione, dalla generalizzazione e dalla verifica delle ipotesi. Questo uso critico della ragione e dell’esperienza, secondo Dewey, va applicato a tutti gli ambiti del sapere e dell’esperienza (dalla scienza all’etica, alla politica, alla pedagogia). Detto ciò, il filosofo americano non collega solo l’esperienza al metodo scientifico, ma pone particolare attenzione anche all’arte, all’immaginazione e alla fantasia.

L’essere umano viene quindi valutato in tutta la sua organicità e complessità sia a livello individuale che sociale, sia in relazione alle attività pratiche e scientifiche sia in relazione all’arte e all’immaginazione. Il suo sviluppo mentale e la sua formazione sono sempre graduali e progressivi.

Il filosofo americano applicò le sue idee organizzando laboratori pedagogici. Il suo modello scolastico pone l’accento anche sulle attività pratiche e prevede un’applicazione del sistema democratico all’organizzazione amministrativa della scuola stessa.

Sulla base di questa complessa visione dell’esperienza e dell’essere umano, Dewey ha compiuto una profonda riflessione politica sulla democrazia e la società industriale di massa. Nella sua prospettiva, la democrazia non è semplicemente un sistema politico, è innanzitutto l’estensione alla società di un sapere aperto e critico. La democrazia è sempre un cantiere aperto e in continuo avanzamento. Per Dewey, la democrazia è strettamente connessa con il sistema pedagogico e la scuola. Per il filosofo americano una comunità per autoregolamentarsi in piena autonomia deve permettere alle intelligenze di interagire interamente tra loro e per farlo tutti devono essere educati a vivere le emozioni e le esperienze. Inoltre tutti essere educati ad usare criticamente la ragione, a valutare conoscenze, opinioni, dottrine e saperi sempre aperti e fallibili. Nell’opera deweyana democrazia ed educazione sono un binomio inscindibile. La pedagogia e il sistema scolastico assumono una forza liberatrice delle capacità intellettive individuali e delle interazioni sociali. Entrambi vanno modellati e adattati per una società democratica industriale estremamente ramificata e complessa.

Nel saggio Democrazia ed Educazione scriveva: “Sul piano educativo notiamo prima di tutto che la realizzazione di una forma di vita sociale nella quale gli interessi si compenetrano a vicenda, e in cui vivo è il senso del progresso o riadattamento, rende una comunità democratica più interessata di quanto non abbiano ragione di esserlo le altre comunità in un’educazione deliberata e sistematica. La devozione della democrazia all’educazione è un fatto ben noto. La spiegazione superficiale è che un governo che dipende dal suffragio popolare non può prosperare se coloro che eleggono e seguono i loro governanti non sono educati. Poiché una società democratica ripudia il principio dell’autorità esterna, deve trovarle un surrogato nelle disposizioni e nell’interesse volontari; e questi possono essere creati solamente dall’educazione. Ma vi è una spiegazione più profonda. La democrazia è qualcosa di più di una forma di governo. È prima di tutto un tipo di vita associata, di esperienza continuamente comunicata. L’estensione nello spazio del numero di individui che partecipano a un interesse in tal guisa che ognuno deve riferire la sua azione a quella degli altri e considerare l’azione degli altri per dare un motivo e una direzione alla sua equivale all’abbattimento di quelle barriere di classe, di razza e di territorio nazionale che impedivano agli uomini di cogliere il pieno significato della loro attività. Questi punti di contatto più numerosi e più svariati denotano una maggiore diversità degli stimoli cui deve rispondere un individuo e per conseguenza stimolano il variare della sua azione. Essi assicurano la liberazione di facoltà che rimangono soffocate fintanto che gli incitamenti all’azione sono parziali, come lo sono parzialmente in un gruppo che, nella sua esclusività, elimina molti interessi. [...] È evidente che una società alla quale sarebbe fatale la stratificazione in classi separate, deve provvedere a che le opportunità intellettuali siano accessibili a tutti e a condizioni eque e facili. Una società distinta in classi deve prestar attenzione speciale soltanto all’educazione dei suoi elementi dirigenti. Una società mobile, ricca di canali distributori dei cambiamenti dovunque essi si verifichino, deve provvedere a che i suoi membri siano educati all’iniziativa personale e all’adattabilità. Altrimenti essi sarebbero sopraffatti dai cambiamenti nei quali si trovassero coinvolti e di cui non capissero il significato e la connessione. Ne seguirebbe una confusione nella quale un piccolo numero di persone si impadronirebbe dei risultati delle attività altrui cieche e dirette dall’esterno.”.

domenica 23 maggio 2021

Sergej Hessen. Valori, autonomia della pedagogia e difesa della democrazia

 Sergej Hessen (1887-1950) ha incarnato la figura dell’intellettuale che si oppone alla crisi morale e politica della propria epoca con la forza della Cultura, la fiducia nella Ragione e sostenendo una battaglia per la difesa della democrazia.

Proveniva da una famiglia composta di giuristi di origine ebraica che viveva in Siberia. Aveva studiato in Germania sotto la guida di Heinrich Rickert (1863-1936). Da giovane aderì al socialismo e partecipò alla rivoluzione di Lenin nel 1917 all’interno del Gruppo Plechanov. Alcuni anni dopo abbandonò l’Unione Sovietica perché non accettava il centralismo democratico di Lenin e la svolta sempre più autoritaria assunta dal bolscevismo. Concordava con quei pensatori che consideravano il bolscevismo come il figlio illegittimo di tutte le più crudeli forme di dispotismo che si erano succedute in Russia dai tempi di Ivan il Terribile in poi.

Lasciata l’URSS, si trasferì prima a Berlino poi a Praga e infine a Varsavia. L’ascesa del fascismo in Italia e del nazismo in Germania determinò in lui un ulteriore reazione intellettuale di rifiuto per ogni forma di totalitarismo e di conseguente controllo del sistema pedagogico.

La sua opera principale è Fondamenti filosofici della pedagogia pubblicata nel 1923, che è il frutto delle lezioni tenute a San Pietroburgo nei primi anni Venti del XX secolo. È un’opera importantissima nella storia della pedagogia che è stata rivalutata solo negli ultimi anni vita del filosofo quando raggiunse grande notorietà con il saggio intitolato Democrazia moderna commissionato dall’UNESCO e pubblicato nel 1949.

Hessen aveva approfondito la filosofia neokantiana molto diffusa in Germania alla fine del XIX secolo e aveva diretto la sua attenzione alla filosofia dei valori, che era il frutto di pensatori che avevano sviluppato l’etica di Immanuel Kant in aperta polemica con la filosofia del positivismo. In particolare, il filosofo russo era un grande ammiratore della filosofia dei valori sviluppata da Rickert. A quest’ultimo si deve la distinzione fra le scienze naturali (fisica, matematica, biologia) e le scienze dello spirito (storia e diritto) e la tesi che anche l’esperienza culturale degli uomini è caratterizzata da una infinita e continua tensione verso i valori. Hessen riformulò queste idee nella sua pedagogia e sostenne sempre che questa scienza è filosofia applicata ad un particolare ambito dell’esistenza umana.

La sua proposta pedagogica si è formata attraverso la riflessione critica di altre filosofie pedagogiche (Rousseau, Tolstoj, Neill, Makarenko). In primo luogo, il filosofo russo criticò la tesi di Rousseau secondo la quale l’uomo nello stato di natura fosse moralmente buono e che venisse corrotto dall’ingresso nella società. Al contrario, sosteneva che le cognizioni e le idee degli esseri umani sono il prodotto storico di un popolo e della civiltà umana che è in continua tensione per il raggiungimento di determinati valori. In secondo luogo, Hessen rifiutava l’idea della rinuncia ad imporre un’educazione agli studenti lasciando loro massima libertà (anarchismo pedagogico e tolstoismo). Riteneva - in polemica con Sutherland Neill - che l’educazione non dipendesse solo dalla valorizzazione della spontaneità e delle personali attitudini del soggetto da educare. Allo stesso tempo, rifiutava categoricamente di sacrificare la libertà individuale rispetto alla dimensione collettiva come accadeva nella pedagogia del sovietico Anton Seminovic Makarenko. Era profondamente contrario alla pedagogia degli stati totalitari che cancellano l’autonomia individuale in favore di un severo indottrinamento fondato sull’ideologia e la propaganda come accadeva nel fascismo e nel nazismo.

Secondo Hessen bisogna mediare tra la naturale spontaneità dell’individuo e la disciplina. Inoltre bisogna sia rispettare le caratteristiche individuali ma saperle orientare verso qualcosa di super-individuale, ossia la gerarchia dei valori.

Nel suo modello scolastico, lo studente passa attraverso tre fasi. La prima è la fase dell’anomia che riguarda i bambini più piccoli. In questa fase, viene valorizzata la dimensione del gioco. Nella seconda fase (la fase dell’eteronomia), lo scopo è quello di avvicinare i ragazzi al lavoro e alla disciplina. La terza fase, ossia la fase dell’autonomia, i ragazzi devono completare la loro formazione morale rispetto ai valori universali.

Hessen propose la scuola unica in cui l’obbligo scolastico giunge fino alle scuole superiori e va esteso a tutti. Sosteneva che la disuguaglianza sociale ha origine soprattutto nell’ignoranza e nella mancanza di educazione e di istruzione. Pertanto, la scuola è veramente democratica solo quando consente a tutti di raggiungere e completare l’obbligo scolastico. In tal modo, diviene il primo strumento per realizzare concretamente la libertà e l’eguaglianza.

Solo alla fine del percorso, gli studenti avranno una formazione generale orientata ai valori universali e plasmata anche da ideali democratici, che è anche una sintesi dell’eredità della cultura classica e del cristianesimo. Questo modello scolastico è profondamente collegato ad una particolare ideologia in cui viene superato il liberalismo classico in favore di un socialismo liberale e riformista.

La pedagogia di Hessen può essere collegata con quella del filosofo e pedagogista americano John Dewey (1859-1952). Entrambi hanno l’obiettivo comune di rinnovare il sistema educativo per adattarlo alle necessità dell’essere umano del XX secolo. Entrambi ritengono che la tradizione del liberalismo classico sia ormai da superare. John Dewey si è avvicinato al liberalismo sociale dei progressisti americani, mentre Hessen a forme di socialismo liberale e riformista. Sia il filosofo americano che il pedagogista russo ritengono che il futuro dell’umanità sia in una nuova forma di stato democratico.

Lo svolgimento dei due pensieri è però molto diverso. Dewey opera nel contesto americano dove sono molto forti le tendenze conservatrici che ancorano le loro idee a strutture economiche e politiche ben consolidate. Hessen operò in luoghi in cui l’irrazionalismo filosofico e la crisi dei valori aveva lasciato lo spazio alle dittature di stampo fascista. Le sue speranze di realizzare in Russia con la rivoluzione una nuova società andarono deluse con l’avanzare del centralismo democratico e la stretta autoritario impressa da Lenin a partire da 1920 in poi. La sua pedagogia aveva come obiettivo di ancorare l’umanità ai valori a dei fini super-individuali fondati sulla cultura, la bellezza e l’arte. Questa pedagogia doveva essere un argine alla demagogia, all’eccitazione orgiastica tipica dei regimi fascisti, al dispotismo e al nichilismo.

Mentre Dewey tende a sottolineare la necessità di cambiare e di ricostruire in continuazione il sapere e le credenze, a ribadire che il sapere e la conoscenza sono sempre aperte e fallibili, Hessen, invece, pur riconoscendo questo stesso aspetto, pone dei fini ideali super-individuali che sono rappresentati dai valori.

Entrambi concordano sullo strettissimo legame tra la democrazia e l’educazione e sostengono che il sistema scolastico è il principale strumento per l’emancipazione dell’individuo e della integrazione nei vari gruppi sociali.

Non va dimenticato che Sergej Hessen ebbe modo di visitare anche l’Italia e scrisse anche alcune opere sulla pedagogia di Giovanni Gentile (1875-1944). A nostro avviso, però la sua proposta pedagogica può essere ricollegata anche al saggio Socialismo liberale di Carlo Rosselli (1899-1937), uno dei fondatori del Partito d’Azione. Rosselli criticava il marxismo e il leninismo partendo dalla riflessione del riformismo di Eduard Bernstein (1850-1932) e soprattutto dalla tradizione del socialismo inglese. Riteneva che la strada maestra da percorrere fosse quella del repubblicanesimo e di una democrazia piena che andasse oltre i principi della Rivoluzione francese e del liberalismo classico. Nelle pagine di Socialismo liberale c’è una notevole tensione etica e si pone molte volte l’accento sulla formazione morale e sulla pedagogia. Questo tratto pedagogico di Rosselli trae origine direttamente dall’opera e dall’esempio di Giuseppe Mazzini (1805-1872). Com’è noto, i fratelli Rosselli furono vittime di un feroce attentato organizzato dai fascisti. Le idee di Rosselli furono rivalutate dopo la Resistenza con l’Assemblea Costituente e la nascita della Repubblica Italiana. E solo in tempi ancora più recenti sono stati condotti studi sulla sua idea di Europa e sulla federazione europea sviluppata dal gruppo di Giustizia e libertà.

In conclusione, Sergej Hessen, John Dewey e Carlo Rosselli pongono il rinnovamento morale e la pedagogia a fondamento di un nuovo sistema democratico più inclusivo e redistributivo. Nelle loro opere Morale, Democrazia ed Educazione entrano in strettissima correlazione e sono i pilastri dell’emancipazione degli esseri umani.

venerdì 21 maggio 2021

Cicerone e la fine della Repubblica Romana

I consigli accademici di alcune facoltà americane, da qualche tempo, stanno rivedendo i programmi di studio nei loro corsi. Alcuni autori sono entrati nel mirino. Tra questi anche Marco Tullio Cicerone che, secondo alcuni sarebbe un autore per suprematisti bianchi. Sicuramente, su molte questioni Cicerone la pensava molto diversamente da noi, uomini del terzo millennio, ma ci sono alcuni aspetti della sua vita e della sua opera che sono molto attuali e importanti per la nostra era.

Marco Tullio Cicerone è stato un avvocato, magistrato e politico romano che ha operato nel periodo della crisi e della fine della Repubblica romana. Nell’anno in cui fu eletto console, il suo rivale politico Catilina tentò un colpo di stato. Cicerone lo scoprì e lo denunciò in Senato. La congiura fu poi repressa nel sangue.

Successivamente, raggiunsero il potere, politici contrari a Cicerone che lo bandirono da Roma, gli confiscarono i beni e lo costrinsero all’esilio. Alcuni anni dopo fu riabilitato e rientrò trionfalmente in Roma, dove riprese in pieno la sua attività politica. Fu un influente senatore in diretto contatto con Giulio Cesare, Pompeo e Licinio Crasso. Dopo la sconfitta di Pompeo, riuscì insieme ad altri senatori e membri di influenti famiglie romane ad ottenere una riconciliazione con Giulio Cesare e i cesariani.

La repubblica era ormai al suo crepuscolo in quanto il potere era detenuto dall’esercito e da Giulio Cesare che governava in modo sempre più dispotico. Questo corso politico fu interrotto da Bruto e Cassio che assassinarono Giulio Cesare in Senato. Bruto sollevando il pugnale gridò il nome di Cicerone. Da quel momento, i cesariani lo considerarono l’ispiratore dell’assassinio. Marco Antonio prese ad attaccarlo pubblicamente in Senato e in ogni occasione pubblica. Cicerone risposte con le Filippiche, una serie di discorsi violentissimi contro Marcantonio, in cui l’ex console dà massima espressione alle sue capacità oratorie. La sua stella cominciò a declinare e finì assassinato da sicari di Ottaviano Augusto.

Cicerone pubblicò moltissime opere filosofiche, politiche e retoriche, un vero e proprio monumento di stile e di cultura. Nel De officiis, suo testamento spirituale, il grande oratore sosteneva che ogni individuo è contemporaneamente membro di varie comunità: la famiglia, il cerchio degli amici, la propria città, lo stato, la kosmopolis. Questa è la famosa teoria dei cerchi concentrici di Ierocle, lo stoico. Per ogni cerchio, Cicerone ha individuato specifici doveri etici a cui ogni uomo non può mai venire meno. Riteneva che la guerra dovesse essere solo l’extrema ratio nella comunità internazionale e che, in ogni caso, ci fossero delle regole di condotta delle azioni belliche.

Dallo stoicismo, Cicerone aveva derivato l’idea che esistesse un diritto naturale universale per tutti i popoli. Tuttavia, era un avvocato e un politico, e in molte parti del De officiis sottolinea come il diritto è imperfetto e vada completato sempre dall’equità e dal comportamento etico del giurista. In definitiva, per Cicerone, uno stato funziona quando le regole del diritto – anche se imperfette – sono un limite all’arbitrio e quando vengono completate dall’equità, dalla passione civile e morale dei giuristi e politici. Questo processo non è il frutto di astratte speculazioni sul diritto naturale, ma dalla pratica quotidiana nei tribunali e nelle istituzioni politiche.

Riprendendo una idea espressa dallo storico Polibio, Cicerone era convinto che non esistesse alcun sistema politico perfetto o perfettibile. Tutti gli ordinamenti sono imperfetti e man mano che vengono a contatto con la realtà tendono a degenerare. La monarchia diviene tirannide, l’aristocrazia diviene oligarchia, la democrazia diviene oclocrazia. E di questa degenerazione, Cicerone aveva fatto esperienza diretta come magistrato e politico della repubblica romana. Nelle Filippiche, Cicerone descrive in modo tremendo la mancanza di cultura e l’incapacità oratoria di Marcantonio, la sua avidità, la sua vita dissoluta con le donne e con i gladiatori dell’epoca. Addirittura arriva ad accusarlo di essersi impadronito dei beni di Pompeo, quando questi era stato sconfitto.

Contro queste forme di degenerazione, una gran parte delle opere di Cicerone sono dedicate soprattutto all’oratoria, o più correttamente alla formazione del giurista e del politico. Tutte queste opere hanno lo scopo di fornire strumenti culturali, giuridici, filosofici e di trasmettere l’esperienza concreta di un politico alle nuove generazioni. Secondo Cicerone, la degenerazione e la crisi di un sistema politico sono quasi regolari e possono essere superate solo con la presenza di un ceto politico dotato di cultura, preparazione tecnica, abilità oratoria, passione civile e morale.

Cicerone stabilisce, quindi, un profondo legame tra pedagogia, cittadinanza e pratica quotidiana del diritto nei tribunali e nelle istituzioni politiche ed economiche. Questo tema è presente in molti grandi opere di pedagogia di John Dewey e di Sergej Hessen. È un tema ricorrente anche nel pensiero di filosofi di diversa estrazione ideologica come il liberale Josè Ortega y Gasset, il cattolico Don Luigi Sturzo e il sovietico Anton Semenovyc Makarenko. Heinrich Pestalozzi ha elaborato addirittura una pedagogia che sembra modellata a partire dalla teoria dei cerchi concentrici di Ierocle e di Cicerone.

In questa prospettiva, le idee di Cicerone sul legame tra pedagogia, cittadinanza e diritto sono validissime anche oggi, nel momento di profonda crisi dell’Italia e dell’Unione europea.

domenica 9 maggio 2021

Francesco Coniglione "legge" Ludwik Fleck

 Ludwik Fleck "Stili di pensiero. La conoscenza scientifica come creazione sociale", a cura di

Francesco Coniglione, Mimesis Edizioni, Sesto San Giovanni (MI), 2020, pag. 300. In questo volume sono raccolti, a cura Francesco Coniglione, ordinario di Storia della filosofia presso l’università di Catania, di tutti gli articoli di carattere epistemologico di Ludwik Fleck. È una pubblicazione molto importante perché offre al lettore italiano una parte dell’opera di un pensatore a lungo dimenticato e accantonato. Il suo nome compariva solo in una nota nel saggio intitolato Experience and Prediction di Hans Reichenbach e nell’introduzione de La struttura delle rivoluzioni scientifiche di Kuhn. Solo alla fine del ’900, gli studiosi hanno cominciato a rileggere e riesaminare la produzione di Fleck, in conseguenza della notorietà nel contempo acquisita dall’opera di Kuhn, che dichiara di aver tratto da essa molte idee.

Nella sua introduzione, il curatore presenta Fleck come pensatore eterodosso rispetto ai tradizionali ambienti filosofici della sua epoca. Innanzitutto, Fleck non era né un fisico né un matematico, ma un batteriologo e microbiologo. Era originario della città di Leopoli dove operò per gran parte della sua vita. In questa città fiorì anche una delle importanti scuole filosofiche polacche denominata “Scuola di Leopoli-Varsavia”, con la quale criticamente si confrontò. Durante la guerra, i nazisti trasferirono Fleck, che era ebreo, e parte della sua equipe prima nel campo di concentramento di Auschwitz, dove lavorò nel laboratorio di igiene; poi in quello di Buchenwald dove lavorò in un laboratorio per la produzione e lo studio del siero contro il tifo. Dopo la guerra ritornò all’università di Lublino dove lavorò come direttore del Dipartimento di microbiologia medica dell’Università Marie Curie-Skłodowska e poi come assistente dell’Accademia di medicina fino al 1952. Successivamente emigrò in Palestina dove poi morì.
L’opera epistemologica di Fleck è particolarmente interessante perché presenta un particolare approccio alla scienza in radicale controtendenza con quello della sua epoca: Fleck ha infatti insistito molto sulla sua dimensione storica e sociale. Negli anni Trenta questo approccio non era molto tenuto in considerazione. Sia i neopositivisti viennesi e berlinesi sia i loro colleghi matematici e logici inglesi miravano alla costruzione di un sistema scientifico unico fondato sulla logica formale e su un’applicazione del metodo scientifico. Quasi tutti cercavano di ricondurre ad unità, il grande edificio della Scienza. Tra la fine del XIX secolo e l’inizio del XX secolo era esplosa la crisi dei fondamenti della matematica a causa della teoria degli insiemi di Cantor a cui era seguito prima il terremoto della teoria della relatività di Einstein e poi l’uragano della meccanica quantistica di Heisenberg e Schrödinger. Gli scienziati dell’epoca ritenevano che, nonostante tutto, la scienza fosse edificata su un rapporto asettico tra soggetto e oggetto e che le determinazioni psicologiche, sociali, religiose, di genere e di razza fossero del tutto secondarie. Si dava per scontato che la scienza fosse neutrale rispetto alle concezioni culturali e politiche e del tutto oggettiva. In questa prospettiva, gli scienziati dovevano solo assiomatizzare bene le proprie teorie, inquadrarle da un punto di vista matematico ed empirico e poi procedere o a verificarle (Carnap) o a tentare di falsificarle, in modo da attestarne il carattere scientifico (Popper).
Fleck parte da una concezione della scienza molto diversa, nella quale hanno notevole influenza la cultura, l’ideologia politica, la struttura della società e il modo con cui gli scienziati e gli intellettuali sviluppano una teoria. In particolare, questo microbiologo ha richiamato l’attenzione sulla dimensione collettiva della costruzione o della distruzione di una teoria scientifica. Ha sottolineato come il percorso della scienza sia molto più complesso e meno lineare di quanto si è soliti immaginare in visioni troppo semplicistiche della ricerca scientifica. Ogni gruppo di scienziati elabora un proprio linguaggio in base alle proprie convinzioni scientifiche, sociali, economiche e politiche e propone un proprio stile di pensiero. Dopo l’elaborazione di tale linguaggio e delle teorie che in esso vengono costruite, il gruppo cerca di convincere anche i non-specialisti delle proprie convinzioni. I risultati raggiunti e le teorie del gruppo vengono così tradotte in un linguaggio accessibile a quasi tutti.
Molte delle sue idee anticipano temi che sono stati poi sviluppati da Thomas Kuhn ne La struttura delle rivoluzioni scientifiche, in cui si presenta la scienza come un susseguirsi di fasi di scienza normale e momenti in cui si operano cambi di paradigmi e rivoluzioni scientifiche. In questa alternanza di fasi, gli scienziati cambiano profondamente e radicalmente il linguaggio con cui vedono e inquadrano i fenomeni.
Come abbiamo già detto, Fleck era di origine ebraica e visse in prima persona l’ostracismo da parte della “scienza ariana” verso la “scienza giudea”. Svolse una parte di lavoro di ricerca all’interno di due campi di concentramento. Probabilmente si salvò perché le sue competenze venivano ritenute “utili” al Reich rispetto a tanti altri suoi connazionali che per ragioni di razza e per mancanza di competenze o di capacità fisiche venivano destinati alla morte. Quando si trasferì dalla Polonia in Israele, a Fleck fu rimproverata la sua collaborazione con i nazisti nei laboratori dei campi di concentramento a Buchenwald e ad Auschwitz; accuse infondate perché in effetti – come è bene documentato nel volume citato – egli operò invece attivamente con la resistenza clandestina per sabotare i vaccini destinati alle truppe naziste al fronte e per assicurarne dosi agli internati ebrei. Inoltre sua figura fu guardata con sospetto perché aveva continuato a lavorare a Leopoli dopo la Seconda Guerra Mondiale sotto un regime comunista.
In estrema sintesi, a causa delle idee eterodosse e anche a causa delle vicende biografiche personali sommariamente descritte, Fleck è rimasto ai margini dei circoli intellettuali della Germania, della Polonia e di Israele. Questo suo isolamento ha contribuito alla scarsa attenzione che per decenni la comunità dei filosofi gli ha tributato.
Il suo approccio alla scienza è stato notevolmente rivalutato quando la storia della scienza è stata sviluppata con vigore e in modo molto più attento ed organico. Il suo valore e la sua importanza sono stati rivalutati in numerosi studi e l’introduzione del curatore fa un’egregia sintesi dell’opera di Fleck e dello stato della ricezione e riflessione sul suo pensiero. È tuttavia solo leggendo i saggi contenuti nel volume che se ne può effettivamente apprezzare l’acutezza, la profondità e la persistente attualità.

Il Big Bang non c’è mai stato… Teorie alternative nella scienza del XX e XXI secolo

Il Big Bang non c’è mai stato… Così afferma il prof. Eric Lerner, che ha pubblicato nei primi anni Novanta un fortunato saggio con questo ti...